The Age of Plastic

I wish my skin could stand the pace
In the bed I read my mind
Remember how the mice were blind
I watch them fighting in their cage
Could this be the plastic age?

Buggles, Living in a Plastic Age, 1980

Il 1980 è un anno epocale per tanti versi. Finisce il decennio più cupo del nostro dopoguerra e comincia la nuova era del postmoderno che vede, finalmente, l’Italia in prima fila nelle proposte creative, in particolare nell’arte, architettura, moda e design. Ritornano il colore, le linee curve e le forme tondeggianti, l’ornamento non è più un delitto e l’arte contempla la possibilità del gioco, del ludico, che non vuol dire affatto sciocco o banale.

Di quell’anno di grazia il mondo della musica pop ricorderà l’uscita di un singolo tormentone Video Killed the Radio Star cantato dai Buggles, duo inglese destinato semmai a passare alla storia proprio per questo brano, contenuto in una specie di concept album –The Age of Plastic– dedicato alla plastica come materiale del futuro. Né va dimenticato che l’hit del disco aveva accompagnato l’inizio delle trasmissioni di MTV, il canale televisivo interamente dedicato alla musica, la cui diffusione –secondo l’ironia di Horn & Downes- avrebbe prima o poi ucciso le star delle radio, quindi in fondo il suono stesso.

Verso il 2000 tutto sarà plastica, dagli oggetti che manipoliamo quotidianamente, surrogato economico e divertente di materiali ben più nobili, alla nostra faccia ritoccata da gommini e siliconi per ritardarne il più possibile il declino e la caduta; dalla musica, che chiunque potrà suonare su sintetizzatori dalla melodia artificiale senza per forza esserne capaci, macchine in grado di fare le veci dell’uomo, alla filosofia dell’usa e getta.

I nati all’inizio degli anni Sessanta, l’artista Caterina Tosoni e io siamo esattamente coetanei, classe 1961, sono stati la prima generazione a crescere con la tv in casa e con la plastica negli armadietti. Uno degli spot più divertenti ed efficaci del Carosello della nostra infanzia era quello della Moplen, dove l’attore Gino Bramieri canticchiava il fortunato jingle “è leggero, resistente, inconfondibile” per definire questo nuovo materiale di produzione Montedison con cui si costruivano giocattoli, carrozzine, piccoli elettrodomestici, accessori vari. Tale era la frenesia produttiva e l’entusiasmo tecnologico dell’epoca che nessuno immaginava un’eventuale molto probabile tossicità della plastica: la coscienza ambientalista era ben lungi dal venire, troppo ingenua e sognatrice la leva dei nostri genitori per preoccuparsi di eventuali danni collaterali.

Quelli che negli anni Sessanta ne avevano venti non potevano preoccuparsi troppo del futuro perché avevano davanti uno straordinario presente. A tal proposito scrive Giampiero Mughini, “per noi ventenni era motivo di euforia che negli usi e costumi della società italiana stessero prendendo il sopravvento le cose che amavamo, che le ragazze indossassero gonne corte e reggiseni a balconcino, che nei negozi di vinili arrivassero così tanti dischi rock inglesi e americani, che fossero così alte le pile di libri tascabili all’entrata delle librerie Feltrinelli, che costassero così poco gli oggetti di uso quotidiano il più delle volte in plastica che entravano nelle case a renderle più colorate e frizzanti, magari la radio Brionvega disegnata da Marco Zanuso oppure il calendario disegnato da Enzo Mari per la Danese. Da quell’euforia, che durò la buona parte dei Sessanta, ne venne la nostra convinzione entusiasta che le società non fanno altro che camminare di gran lena verso il progresso e verso il meglio, e che ci sarebbero stati per tutti più denari e più beni di consumo e più libertà e più fantasie. Ci sbagliammo”.

Ad un certo punto la plastica si è trasformata da elemento decorativo del quotidiano a un problema reale ed è stata additata come principale responsabile del profondo disequilibrio ambientale in atto dalla fine dello scorso secolo, diventando in qualche modo il simbolo di un fallimento generazionale (uno dei tanti) che ancora ci portiamo dietro. Per fortuna l’arte riesce laddove la realtà ancora non può arrivare, avendo nel proprio specifico quella componente utopistica altrove negata. Per esempio la pittura e la scultura possono risolvere quel problema per noi così impellente, ovvero il riutilizzo dello scarto: non lo smaltimento del rifiuto ma la sua rinascita in termini creativi.

Non per nulla la poetica di Caterina Tosoni parte da due momenti cruciali dell’arte contemporanea: i Combine Paintings di Robert Rauschenberg, New York metà anni Cinquanta, e il Nouveau Réalisme, Parigi 1960. Per l’artista americano, figura di cerniera tra Espressionismo astratto e Pop Art, l’oggetto usato, che aveva terminato il proprio ciclo vitale e attendeva solo di essere accantonato, gettato, ponendo così il problema dello smaltimento, trovava attraverso l’arte il cosiddetto “tempo eterno”. Se a nessuno verrebbe in mente di conservare un rifiuto, allo stesso modo un rifiuto diventato opera aspira a durare per sempre, applicando ancora una volta la vecchia ma sempre valida teoria del ready made per la quale è il contesto a certificare l’esistenza e il diritto di cittadinanza dell’arte stessa. Ciò vale per un capolavoro come Bed (1956), dove Rauschenberg dipinge su un materasso, e ancor di più per le Accumulations di Arman o le Poubelles di Daniel Spoerri, che rappresentano il passaggio successivo, e cioè il rifiuto vero e proprio.

La differenza con Tosoni sta nell’uso contemporaneo e post tecnologico della plastica, perché con questo materiale si è prodotta un’ipertrofica quantità di oggetti se non inutili destinati almeno a una vita brevissima, sorpassati in fretta nelle funzioni e nel design. L’artista milanese li raccoglie pazientemente, li ricopre di uno strato monocromo antipittorico, neutro e impersonale, rimettendoli così in circolo quando nessuno avrebbe più scommesso su di loro. Siccome non vive in una realtà di plastica, perifrasi usata per indicarne la finzione e l’artificiosità, ci mette di fronte al problema abusandone, facendolo straripare dai confini. La sua è una plastica ammiccante, invasiva, che come un virus contamina gli oggetti e le cose senza più lasciarli, camuffandosi dietro il colore familiare e zuccheroso, illusorio e suadente, falso e pericoloso.

Vediamone alcune di queste strane mutazioni genetiche inventate da Caterina Tosoni, in un universo dove la natura come gli uomini subiscono quest’attacco da Bmovie di fantascienza  diventando incapaci di reagire, talora addirittura impediti (nel drammatico Abbraccio del male plastica è sinonimo di violenza verso la donna). Come un camaleonte, la plastica si mimetizza con gli altri materiali, diviene altro da sé e porta in trionfo la falsità: accade nelle Metamorfosi vegetali, minerali e animali fino ad aggredire la nostra specie, completata da strane protesi come da poetica del Post Human così diffusa negli anni Novanta.  In questo percorso pare di essere a scuola, dove si studiano la storia e la geografia: L’onda del tempo sembra una citazione dal Naufragio della speranza di Caspar Friedrich, mentre il rimando alle arti ritorna nei divertenti sberleffi a Botticelli, Michelangelo e, ovviamente, alla leonardesca Monna Lisa. La geografia, invece, si trasforma nell’aspetto più urgente, a suo modo politico, del recente lavoro di Caterina Tosoni: il mondo è ordinato per carte, mappe, planisferi e globi, uniti dal comune destino di essere invasi dalla plastica, che non risparmia neppure il mare. Vi leggessimo solo l’allarme sociale ed ecologico risulteremmo troppo didascalici e faremmo torto a un’artista comunque leggera, immaginifica e ironica; non prendendo in considerazione gli allarmi di Nuovo mondo o della serie Uguaglianza compiremmo l’ennesimo gesto di irresponsabilità nei confronti delle inquietanti mutazioni plastiche ormai parte della nostra stessa esistenza.

Luca Beatrice